Alberto Asquini - XXX Tricesimo

L'autobiografia del giurista Alberto Asquini (Tricesimo, 12 agosto 1889 – Roma, 25 ottobre 1972)

STORIAGENEALOGIA

Alberto Asquini

8/23/202510 min read

ALBERTO ASQUINI

MEMORIE
1889 – 1938
TRICESIMO

Tricesimo deve il suo nome all'essere stato nell'epoca romana una "stazione" che segnava il trentesimo miglio tra Aquileia e Giulio Carnico. Oggi é un sobborgo di Udine, sede di una "stazione di Carabinieri". Mio padre, brigadiere dei Carabinieri, comandava quella stazione quando conobbe e sposò mia madre, sorella del farmacista del paese. Il cognome Asquini é caratteristicamente friulano e per alcune famiglie catalogato nell'araldica, ma ugualmente diffuso tra il popolo per l'antica costumanza della gente del contado di assumere il nome delle casate nobiliari attorno a cui viveva.

Non sono però nobili castellani i miei antenati. Mio nonno si era trasferito dal Friuli a Trieste con un modesto impiego all'Ospedale Civile e, non avendo mezzi per educare i numerosi figli, aveva dovuto lasciare che questi, ancora giovani, provvedessero da sé. Due o tre erano emigrati in America. Mio padre a diciotto anni si era arruolato nei Carabinieri in Italia.

Egli concluse la sua carriera come maresciallo in una stazione di confine - San Giovanni di Manzano - qualche anno dopo la nascita mia e di mio fratello, rinunciando agli esami per la promozione a ufficiale, poiché mia madre non disponeva della dote richiesta.

Lo Stato lo compensava con una pensione di pochi soldi e con il conferimento onorifico degli alamari di sottotenente, a cui si aggiungeva l'incarico di “corriere” della valigia diplomatica per Vienna, Berlino e Pietroburgo, il che significava il guadagno di qualche centinaio di lire di trasferta per viaggio. Per far vivere la famiglia, mio padre dovette quindi cercare un nuovo lavoro: si stabili così a Udine, dove iniziò un modesto commercio di combustibili. Ma, poiché nel commercio non portò che la sua esperienza militare, é facile immaginarne i risultati. Per mettere assieme quelle tre o quattromila lire annue che occorrevano per tirare avanti con la famiglia, egli lavorò per il resto della sua vita come uno schiavo, invecchiò precocemente e a un certo momento dovette liquidare tutto, con il solo conforto di non lasciare debiti insoluti. L'aiutò a quadrare il modesto bilancio famigliare l'abnegazione di mia madre, che, per quanto malferma di salute, si assunse tutto il peso dei lavori di casa e si adattò a tenere qualche studente a pensione.

Vi era però sia in mio padre che in mia madre, il pudore di non scoprire le loro angustie. La povertà della mia famiglia era nascosta da quel velo di apparenze, con cui tanta parte della piccola borghesia. specialmente nelle città di provincia, cerca di far schermo al dramma del pranzo e della cena, rendendone in realtà più acuta la sofferenza.

La mia infanzia non conobbe quindi la gioia spensierata che costituisce normalmente, così per i figli dei ricchi come per i figli del popolo, il privilegio di quell'età. Il grigiore delle angustie famigliari vela di malinconia tutti i ricordi della mia infanzia. Fui portato fin da bambino a cercare le ore di schiarita fuori dalle pareti domestiche, nella scuola, nell’osservazione del piccolo mondo che mi circondava, nell’immaginazione del mondo più grande che stava al di là.

LA SCUOLA

La scuola mi riusciva facile, soddisfaceva le mie prime ambizioni e mi incoraggiava. Il piccolo mondo che mi circondava - quello dei compagni e dei vicini di casa - mi pareva già grande rispetto alle strettezze famigliari, il mondo non conosciuto si apriva alla mia immaginazione e la eccitava attraverso i racconti di mio padre sui suoi viaggi di “corriere” a Vienna, Berlino e Pietroburgo e i racconti di mia madre sugli episodi delle guerre napoleoniche, a cui aveva partecipato suo nonno, caduto nella ritirata di Russia, e su quelli dei moti del Risorgimento, a cui aveva partecipato suo padre a San Daniele del Friuli.

Mio maestro alla scuola elementare di S. Domenico a Udine era un sacerdote, Giuseppe Prini, che godeva di grande popolarità non solo per essere l'unico sacerdote conservato in detta scuola dopo le leggi laiche, in considerazione delle sue idee liberali, ma anche per l'umanità del suo spirito e per le sue rare doti di insegnante. Dopo scuola solevo accompagnarlo fino alla sua modesta casa per il piacere di poter conversare con lui e sentire i suoi arguti giudizi su uomini e fatti del giorno, che sollecitavano la mia curiosità. Forse imparai da lui per la prima volta la diffidenza verso le frasi fatte e i luoghi comuni.

La prima pubblica "manifestazione di massa” a cui presi parte fu la manifestazione per la celebrazione del cinquantenario dello Statuto, nel 1898. A Udine ci fu un grande corteo scolastico che attraversò tutta la città, salì fino al Castello per lo scoprimento di una lapide commemorativa dei moti dei 1848, e si sciolse in Piazza Garibaldi davanti al monumento dell'Eroe. Il corteo si svolse tra cateratte di discorsi politici che risentivano dello spirito polemico del tempo, eccitato dai "fatti reazionari” di Milano del maggio 1898 e dalle delusioni della politica crispina, che aveva portato l'Italia ad Adua nel 1896.

A nove anni, quanti allora ne avevo, capivo ben poco di quei discorsi. Della manifestazione io non sentivo che la sofferenza del caldo e della stanchezza, tra il pigiare della folla che faceva ala all'interminabile corteo. Ma leggevo l'effetto dei discorsi sul volto del maestro Prini, che pazientemente ci accompagnava e sembrava invocare dagli oratori pietà per lo Statuto e per noi. Evidentemente già nel 1898 le manifestazioni di massa esigevano per la loro cornice sacrifici di innocenti.

Venne poi la nascita del nuovo secolo. Dal Castello di Udine lo salutava un faro, che fendeva con i suoi fasci luminosi la stellata notte nel 1° gennaio 1900. I miei genitori, precocemente incanutiti, riguardavano con rimpianto il secolo che moriva, quantunque questo non avesse loro riservato particolari gioie, e al nuovo secolo guardavano più con ansia che con speranza. A me pareva un buon auspicio entrare nella vita all'alba di un nuovo secolo.

Invece il nuovo secolo iniziò con un lutto nazionale: l'assassinio di Re Umberto a Monza, il 29 luglio 1900. Il lutto pareva entrato anche nella mia piccola famiglia. Mia madre lavorò più giorni per preparare drappi neri con le cifre sabaude da esporre alle finestre. Mio padre non risparmiava parole di esecrazione, incolpando del regicidio la debolezza del governo verso i partiti di estrema sinistra. Nell'ingenuità dei miei undici anni chiesi a mio padre perché il Re non avrebbe potuto sopprimere i partiti. Mio padre, con altrettanta semplicità - la semplicità di un ex-Carabiniere che aveva giurato fedeltà al Re e allo Statuto - mi rispose: “Non si può, perché i colpi di Stato sono vietati dallo Statuto".

Mi sforzai allora invano di capire il senso di questa risposta, cui il mio pensiero doveva ritornare più volte tanti anni dopo, sotto il peso di altri eventi.

Nel 1903 vidi a Udine il nuovo Re in occasione della sua visita all’Esposizione regionale. L'avvenimento aveva elettrizzato la città. Io, appena quattordicenne, mi trovai ad assistere all'ingresso del corteo reale in città, arrampicato ad un fanale, dietro ai cordoni militari. Ero fin da ragazzo piuttosto chiuso al contagio delle dimostrazioni collettive. Ma quando il Re mi apparve, giovanile se pur severo, procedente tra le battute della marcia reale, mi sentii gonfiare il cuore e, mentre la folla urlava e applaudiva, restai con la voce in gola.

Mi trovai poi travolto nella dimostrazione irredentistica a cui aveva dato luogo la larga affluenza a Udine di italiani irredenti di Gorizia e Trento.

Leggendone il giorno dopo la cronaca sui giornali, con gli accenni alle ripercussioni internazionali dell'avvenimento, mi parve per la prima volta di avere preso contatto con la storia.

Erano le prime evasioni dal grigio trascorrere della mia adolescenza mentre, entrato nel ginnasio, dovevo contare per tirare avanti sull'abnegazione della mia famiglia, sull'esenzione dalle tasse scolastiche e sulle poche decine di lire mensili che potevo raggranellare come “ripetitore”. Il Ginnasio Liceo Jacopo Stellini mi apriva tuttavia lentamente un nuovo mondo. L'edificio era un antico chiostro, in cui bene si inquadrava l'austerità ermetica del vecchio azzimato preside Dabalà. Mi fu professore nei primi anni Giuseppe Rossi, fanatico dell'insegnamento come un allenatore, e fanatico della monarchia come uno scudiero dei Re. Non passava ricorrenza patriottica in cui egli non ci tenesse un discorso di occasione per ricordarci, col braccio teso verso l'immagine del Re sopra la cattedra, che quello solo era il nostro padrone e il garante della nostra libertà; il che ci dava il sollievo di una breve pausa nella lezione di latino e ci solleticava nell'orgoglio di difensori delle patrie istituzioni. Poi, avanzando negli studi, più varie furono le figure degli insegnanti: Giovanni Novacco, istriano irredentista che condiva la lettura dei classici latini con arguti raffronti con i costumi dei tempi moderni; Luigi Comencini, vecchio garibaldino, severo nell'insegnamento, corrosivo nei giudizi sugli uomini dei suo tempo; Giuseppe Rovere, che metteva tutta la sua buona volontà per smaliziarci dalla credulità nella obiettività degli storici di tutti i tempi; Felice Momigliano, con tutte le civetterie e le distrazioni dei filosofi; Nazzareno Pierpaoli, che ci seppe far assaporare la disciplina del metodo scientifico.

Sui banchi del Ginnasio Liceo Jacopo Stellini si formarono le prime amicizie, quelle amicizie che hanno poi affrontato tutte le prove e non si sono più estinte.

Nelle aule del Ginnasio Liceo entrarono i richiami della vita. La storia e la lettura dei classici polarizzavano le diverse simpatie: chi era per Alessandro, chi per Demostene, chi per Giulio Cesare, chi per Marco Bruto. Carducci imperava con la sua poesia civile, contro la piattitudine e la viltà dei reggitori delle terre d'Italia; Pascoli echeggiava le aspirazioni sociali del nuovo secolo; D'Annunzio alimentava con la sua diana sogni di ribellione e di grandezza. La letteratura, il teatro, la filosofia erano motivo di giovanili polemiche, nelle quali si intramezzava di tanto in tanto anche la politica. Tra i libri scolastici giravano anche i giornali e le cronache elettorali tenevano il posto che oggi tengono le cronache delle partite sportive. In terza ginnasio incidevo col temperino sul banco di scuola “Viva Pelloux”; in quinta ginnasio ero già un convinto liberale. Di tanto in tanto uno sciopero studentesco, in un'epoca in cui gli scioperi erano una nota dominante della vita nazionale, era una buona occasione non solo per far vacanza, ma anche per abbozzare qualche dimostrazione politica. Le voci dell'irredentismo triestino trovavano fra gli studenti udinesi un'eco calorosa, mentre accanto alla scuola si formavano più o meno effimere associazioni studentesche tra cui il circolo Alessandro Manzoni, il circolo giovanile monarchico, la "Trento e Trieste".

Per un paio d'anni feci parte del circolo “Manzoni” dove combattei le mie prime innocenti battaglie per la libertà di pensiero. Ne uscii per entrare nel circolo giovanile monarchico, che rappresentava l'idea liberale e aveva l'onore di essere preso sul serio dai giornali avversari. Partecipai infine all'attività giovanile della "Trento e Trieste", ma ben presto trovai che la retorica dell'irredentismo di ispirazione massonica, di cui tale associazione si alimentava, non era di mio gusto e decisi di non occuparmi più di associazioni politiche. Non sapevo bene cosa fosse la massoneria, ma l’istintiva repulsione, che sentivo fin d'allora per essa, mi restò nello spirito.

L’UNIVERSITÀ

Alla fine del liceo, nel 1908, la licenza d'onore, con una borsa di studio "Marangoni" del Comune di Udine di laute lire 2.500 annue per la facoltà di legge, mi permise di iscrivermi all'Università di Padova. Se non ci fosse stata la borsa di studio mi sarei probabilmente iscritto alla facoltà di lettere o di matematica. Per quanto uscissi per la prima volta dalla cerchia famigliare, la vita goliardica, come comunemente si intende e come allora specialmente a Padova aveva i suoi fasti, non mi attrasse.

Oltre che il suo fragore, mi riusciva poco sopportabile il suo carattere collettivo. Non mi inserii neppure nel gruppo studentesco friulano, che faceva repubblica a sé ed era uno dei più solidali: perché per quanto io fossi un “provinciale”, il “provincialismo” non mi attirava e le qualità della gente della mia terra - la serietà, la costanza e il pudore dei sentimenti, la volitività - mi piaceva ritrovarle più che nelle numerose brigate, nella ristretta cerchia di pochi amici. Con questi preferivo le peripatetiche discussioni storiche e filosofiche sotto gli stretti portici di Padova, che ancora non aveva aperto le sue nuove arterie, discussioni che quasi sempre terminavano nel fumo del Caffè Pedrocchi, fino ad alta ora della notte.

Al Pedrocchi troneggiava il tavolo dei professori, dove pontificavano i maggiori maestri dello studio patavino e dove compariva ancora ogni tanto l'ascetica barba di Roberto Ardigò.

Ardigò era allora il nume maggiore dell'Università di Padova e al suo “positivismo” faceva eco nella facoltà di legge il sociologismo di Brugi che, con l'eleganza toscana della parola e con la civetteria dei ricordi personali, richiamava sempre alle sue lezioni un fortissimo uditorio.

Ma io leggevo allora Croce e mi sentivo immunizzato contro la moda del positivismo, moda che del resto era già sul declinare.

La nota idealistica vibrava invece nelle lezioni di Nino Tamassia che, storico del diritto, toccava in certi momenti gli accenti della poesia. Ma particolare presa su di me ebbero i grandi maestri della tecnica del diritto, che allora l'università di Padova vantava: Polacco, tutto misura ed equilibrio; Cammeo, acutissimo e spregiudicatissimo; Carnelutti, spazioso e architettonico; Alfredo Rocco, sistematico e chiarificatore, che doveva avere un'influenza determinante nell'orientamento della mia vita.

Nel curriculum universitario si intersecava intanto la vita militare. Quando, nel 1909, decisi di compiere il servizio militare a Padova, durante gli studi universitari, come allievo ufficiale, pensavo si trattasse di una breve parentesi allo scopo di eliminare al più presto un noioso disturbo. Invece si trattò tutt'altro che di una parentesi.

IL SERVIZIO MILITARE

I corsi per allievi ufficiali allora si tenevano presso i reggimenti: io entrai al corso presso il 57° Fanteria. Il trovarmi rinchiuso in una rozza camerata della vecchia caserma di Santa Giustina e costretto alla dura disciplina del "corso” mi diede sulle prime un senso di insofferenza che, anche per il mio fisico mingherlino e tutt'altro che militaresco, credevo di non poter mai superare. Invece in breve tempo cominciai a scoprire attraverso la vita di caserma valori umani, che mi erano insospettati: la cordialità del cameratismo, la semplificazione della giustizia attraverso la gerarchia, l'efficacia educatrice della disciplina. Nello stesso tempo l'attenzione del mio pensiero si portava per la prima volta verso i problemi della guerra, che, nel mondo “borghese”, sembravano allora fuori della realtà.

Dopo Adua, in Italia nessuno pensava alla guerra come ad un evento possibile. Le ultime guerre, quella ispano-americana, quella angloboera, quella russogiapponese, parevano dimostrare che la guerra potesse ormai interessare tutt'al più gli altri continenti, non l'Europa. La cultura e la politica giuravano sul dogma della pace intangibile.

Al "Corso allievi ufficiali” cominciai a sentir parlare per la prima volta dell'Europa come di una polveriera, in cui la guerra avrebbe potuto esplodere da un momento all'altro. Direttore del corso era il capitano Costa, un sardo di rude pensiero che rovesciava contumelie su tutti i luoghi comuni della cultura pacifista borghese, considerati come la peggiore insidia per la nostra preparazione militare. Istruttore del corso era il tenente Pafundi, un fanatico della fanteria, tanto da essere chiamato dai suoi colleghi “bellicone”, che si preparava alla scuola di guerra (attraverso alla quale doveva poi salire ai più alti gradi militari), propinando a noi conferenze su Waterloo e su Custoza, su Adua e su Mukden, quasi che ciascuno di noi dovesse prepararsi da un giorno all'altro a divenire conduttore di eserciti.

Il “corso” così finì con l'animarmi e quando, al termine, seppi di essere stato classificato il primo, ebbi una fierezza superiore a quella che mi aveva dato l'essere stato per tanti anni nella scuola il primo della classe.

L'anno successivo, prestando il servizio di prima nomina come sottotenente ancora a Padova nel 58° Fanteria e familiarizzandomi col corpo degli ufficiali, incontrai amicizie ed affinità di pensiero, che valsero sempre più a rendermi persuaso del “vuoto” esistente nella cultura borghese sui problemi militari e del pericolo di questo vuoto.

Era il 1910, l'anno in cui si fondava in Italia, in reazione al tradizionalismo borghese, l'associazione nazionalista, in cui Machiavelli ritrovava lettori e in cui i libri di Corradini parlavano chiaramente della guerra come banco di prova delle nazioni e spostavano per la prima volta i problemi della lotta di classe sul piano della lotta tra le nazioni. Attingendo a tali fonti, scelsi il tema “Rassegna critica della dottrina nazionalista” per una mia conferenza al Circolo ufficiali, tra le conferenze che facevano tenere a turno a noi ufficiali.

Il risultato della mia conferenza filonazionalista fu che, quando nel luglio 1911 venne il giorno del mio congedo, più di un ufficiale superiore dei reggimento mi salutò con il rimpianto che io non avessi chiesto di rimanere in servizio per diventare “effettivo”.